Corpo Celeste di
Alice Rohrwacher
Una ragazza china su un vecchio
crocefisso ligneo adagiato a terra, circondata dalle rovine di un paese
disabitato e silenzioso. La cinepresa si sofferma sul dettaglio delle mani che,
con cura quasi sacra, tolgono lo spesso strato di polvere dato dall’incuria. Il
costato ferito, il viso, le gambe scarne: gesti amorevoli che riportano il
credente al bacio della croce del venerdì santo, memoria della passione di
Cristo. E’ una delle scene chiave del film Corpo
Celeste di Alice Rohrwacher, vincitore del Film Fest di Mantova 2011.
Ancora un film che apre una finestra sul complesso tema della religione.
La giovanissima regista, – laica
ma non anticattolica - afferma di non
aver voluto fare un’opera sulla Chiesa. Il suo sguardo si sofferma riflessivo e
spesso impietoso, su una comunità del Sud occupata nella preparazione della Cresima
di una decina di ragazzi svogliati e annoiati.
Forse non è un film sulla Chiesa.
In effetti i temi sono vari: i conflitti e i meccanismi di relazione
famigliare, le ansie e gli smarrimenti dello sviluppo psicofisico
adolescenziale, i rapporti tra poteri istituzionali. Ma è comunque un film che
deve far riflettere la comunità cattolica.
Si narra lo sradicamento di una famiglia
di solo donne (madre con due figlie)
dalla Svizzera, alla caotica Reggio Calabria, mostrata nel suo triste volto di
una periferia anonima e ferita da un abusivismo diroccato.
Marta, interpretata da una
spontanea attrice dodicenne, dallo
sguardo smarrito e assetato di comprensione, deve accedere al sacramento.
Assistiamo a incontri di catechesi dove il desiderio di animazione, più di
ispirazione televisiva che religiosa, ha estromesso la lettura del Vangelo. Le
“piccole vergini”, sotto gli occhi adoranti dei genitori, fanno “stacchetti” di danza sinuosa come delle
“veline”. Il coro dei cresimandi intona, su base musicale, una canzone scritta
appositamente dalla animatrice dal titolo: “Mi sintonizzo con Dio”. Si
organizzano quiz a risposta multipla, con tanto di proiezione delle risposte
giuste. Ma nessuno conosce il significato del grido di dolore in ebraico del
Cristo sulla croce. I ragazzi devono impararlo a memoria, e Marta ne vorrebbe
svelato il senso. Non può aiutarla la catechista che è in buona fede, ma
ottusa. Non la aiuta e non la capisce il parroco, tormentato dal desiderio di
essere considerato e desideroso di un trasferimento.
C’è molta religione nella
comunità presentata dalla Rohrwacher, ma
c’è una assenza di fede. Direbbe don Milani: “Una religione che vale quanto la
piega sui pantaloni”. Questa assenza è simbolicamente rappresentata nel film da
una croce al neon che ricorda molto le ambientazioni degli spettacoli
televisivi.
Una “religione-spot”, fatta di
cose che si vedono e colpiscono. Una polvere che incrosta il corpo di Cristo e
che la bambina toglie con amore. Questo inganno è svelato dal vero desiderio
spirituale di una ragazza che fugge con l’abito bianco da cresimanda o, forse è
meglio dire, da catecumena.
La croce al neon è deposta. Il
prete non ha più parole. Marta, dopo una
simbolica immersione, che ha tutto l’aspetto di una purificazione
battesimale, raggiunge un gruppo di giovani. Incuriosita li osservava da
lontano nel loro trafficare misterioso attorno a cose abbandonate dalla
società. Lì aprendole le mani, un giovane le offre la coda di una lucertola che
ancora si muove. E dice: “E’ un miracolo, è ancora viva”.
Come non pensare al “piccolo
resto”, alla Chiesa che, nonostante sovrastrutture, incrostazioni, peccati e
contaminazioni sopravvive nel suo desiderio autentico di spiritualità.
E’ ancora viva nella sua vera
essenza.
Enzo Riccò
La grande bellezza di Paolo Sorrentino
Una Roma monumentale che sembra
uscita da un quadro di De Chirico: ruderi di nobili antichità ed edifici che
trasudano solitudine e nostalgia amara. Non c’è presenza di normale umanità. Nessuno
è intento in attività che definiscono la fatica quotidiana del vivere. Quella
di tutti i giorni. Si passa invece da feste orgiastiche contornate da alcol e
droghe a discussioni sul nulla di persone
vuote e svuotate, disincarnate dalla realtà. Una specie di nobiltà
pseudo-intellettuale annoiata con la sua corte di damigelle e giullari, in una città onirica, che mostra solo il suo
volto notturno e sembra fuggire alle prime luce dell’alba per non essere
svelata nelle sue rughe - forse piaghe - di decadenza.
Questo lo sfondo del film “La grande bellezza”, scelto per
rappresentare l’Italia nella sfida americana degli Oscar. La pellicola presenta
la vita mondana dello scrittore Jep Gambardella, che dopo aver scritto un libro
di successo, attende una nuova ispirazione, lasciandosi vivere sull’onda di
piaceri notturni.
Il tratto descrittivo di Paolo
Sorrentino è impietoso, crudele, chirurgico e, come nel suo stile,
drammaticamente grottesco. Del resto è sufficiente ricordare l’altra sua opera:
“L’amico di famiglia” per capire che,
nel descrivere la bassezza umana, questo regista riesce a scavare a fondo.
La denuncia è chiara: una società
narcisisticamente vacua che rincorre il mito edonistico del piacere fino allo
sballo. Il principio reggente è dato dall’importanza dell’apparire fagocitante ogni forma di qualità
interiore.
Il chirurgo estetico si presenta
come un sacerdote in uno studio-chiesa dove la sacralità del corpo diventa
idolatria delle forme e dove si intascano migliaia di euro al suono di una
musica gregoriana. I veri sacerdoti sono incapaci di dare risposte sul senso
della vita e si dilettano in disquisizioni culinarie. L’infanzia che mantiene
una spontaneità creativa, perduta dai grandi, viene sfruttata per fare soldi e
una bambina pittrice viene sottratta dal gioco per un happening pittorico
umiliante.
Là dove i bambini si svincolano da questa cloaca esistenziale di un mondo
adulto privo di valori, sono proprio
loro a richiamare un risveglio motivazionale.
In una scena chiave, Jep segue
una bambina che gioca a nascondersi in un solitario edificio religioso. Nella
semi oscurità della cripta, pensando di essere spettatore inosservato, riceve
invece la vera domanda di senso: “Chi sei tu?”. Il protagonista cerca di
balbettare una risposta, ma viene anticipato dalla sua interlocutrice: “Tu non
sei nessuno”. E’ la condanna di una umanità che cerca il risveglio e svela gli
inganni della falsa felicità dell’effimero.
Questa bellezza mostra la sua
goffaggine come le forme corporee innaturali gonfiate dal botulino.
Sarà proprio, per antitesi, una
donna, una suora detta la santa, dalla
pelle quasi mummificata, a dare a Jep Gambardella l’avvio per un ritorno verso
il ritrovamento di un senso.
Il grande inganno lascia lo
spazio alla ricerca della vera bellezza e riemergono i sogni di un amore
giovanile che aveva il sapore dell’autenticità.
Come non ricordare che nel
linguaggio biblico il termine riferito alla bellezza, ripreso anche dai testi
greci neotestamentari, coincide con il concetto di bene.
La nostra tradizione ebraico cristiana
ci riporta ad una unità che abbiamo smarrito: bello e buono sono inscindibili.
Enzo Riccò
Lourdes di Jessica Hausner
L’opera, della regista austriaca Jessica
Hausner, racconta la presunta guarigione di una giovane,
immobilizzata sulla carrozzella, durante un pellegrinaggio a Lourdes.
Uno sguardo laico – la Hasusner
si dichiara infatti non credente - sul
fenomeno complesso della devozione mariana. In riferimento al miracolo non si
danno risposte, si pongono invece molte domande e si immette, fino alla fine,
il dubbio della veridicità. Una guarigione o un miglioramento momentaneo della
malattia? Uno studio accurato delle luci, per ammissione della stessa regia,
esclude l’immediato riferimento all’intervento soprannaturale. Christine si
alza di notte e improvvisamente ritorna
a camminare. Riprende faticosamente a gestire il suo corpo come una bambina,
circondata da persone che in modo insincero la festeggiano.
Cosa ci può dire questo film
sull’esperienza religiosa? Che profilo di credenza emerge da questo racconto?
Se la fede si manifesta, secondo
il principio evangelico, unicamente nell’amore fraterno, stupisce vedere come
nei personaggi della vicenda ci sia una assoluta mancanza di compassione. Non
c’è vicinanza amorosa. Non c’è empatia. Non c’è nessuna reale commozione. I
movimenti verso l’altro sono falsati da pose di circostanza farisaica, che a
tratti disturbano e infastidiscono.
In questo luogo di sofferenza, tutti
– ad eccezione della compagna di stanza della protagonista - vestono una corazza impenetrabile di egoistica
autoreferenzialità. I malati nutrono invidia per l’apparente guarigione della
compagna. I volontari dell’Ordine di Malta passano dai cinici e taglienti
giudizi dell’anziano barelliere, alla superficiale leggerezza di una giovane
che dice di cercare il senso della vita nel volontariato, poi abbandona la
carrozzina sul piazzale per rincorrere
fugaci simpatie maschili. La severa responsabile dei servizi, sempre attenta a
chiedere la soddisfazione altrui, svelerà dietro una rigida devozione, l’ansia
nascosta di una personale guarigione. Anche il prete accompagnatore balbetta
risposte indecise e formali alle domande pressanti che la sofferenza pone.
Rimane personaggio enigmatico
l’anziana compagna di Christine. Sincera nella sua devozione, la cura e la
segue, quasi al limite dell’ingerenza e desidera per lei la grazia. Sarà l’unica
a posare uno sguardo amoroso sull’alterità
malata. La sua figura però oscilla tra l’immagine simbolica della Vergine che
si china sul bisognoso e la persona che cerca come unica ragione di vita il
sentirsi necessaria agli altri.
Per i credenti questo film è come
uno schiaffo. Un benefico strattone. Un richiamo all’essenza spirituale del
credere, che come ha recentemente affermato il vescovo di Milano, deve esserci
per convinzione, non per convenzione.
Il dolore smaschera l’uomo, mette
a nudo le vere radici delle scelte esistenziali. E anche la fede ne esce
svelata nella sua reale presenza.
Ripensando alle scene di questa
pellicola, soprattutto ai messaggi non verbali degli sguardi e degli
atteggiamenti, risuonano alcune frasi che don Mazzolari scriveva sulla
fraternità nella fede, guardando alle sofferenze della guerra. Sono andato a
verificare. Sul suo libro “Tempo di
credere”, il prete di Bozzolo annota: “Chi
non vive il nostro male è un estraneo, anche se parla la nostra lingua, anche
se siede alla nostra tavola, anche se prega inginocchiato a noi accanto”.
Enzo
Riccò
L’amore inatteso di Anne Giafferi
La pellicola, di produzione
francese, tratta il tema della conversione di un quarantenne avvocato parigino
che, da ateo indifferente e maldisposto verso la religione, si ritrova stupito
e incerto a credere, e soprattutto a percepire,
un Dio che lo ama e gli è vicino. Nella derisione e successiva
incomprensione di familiari e amici, l’avvocato Antoine, muove i primi passi
verso una nuova balbettante disposizione dell’anima, anche per lui
incomprensibile ed enigmatica.
Un elemento interessante è sapere
che la regista mette in scena una vicenda vera e personale. Quella del suo
compagno di vita, Thierry Bizot, autore del libro autobiografico dal titolo “Catholique Anonyme” da cui è tratto il
film. Anne Giafferi confida di aver temuto, una volta scoperto il nuovo
interesse spirituale del marito, di perderlo come assorbito da una passione
sconvolgente e sradicante dalla realtà. Tornando al film, si può dire che la
maggiore singolarità si basa sul fatto che la costruzione narrativa faccia riferimento implicito alla parabola del
figlio prodigo. E’ una rivisitazione
di questo brano biblico nella prospettiva del fratello fedele al padre, quello che rimane a casa.
Antoine, il protagonista, infatti
è attento e sensibile alle necessità di un padre anziano che sembra invece
preferire e accogliere in modo ostinato il fratello minore che è incosciente, ingrato,
aggressivo e profittatore. L’avvocato vive queste relazioni con gelosia e
insofferenza; giudicato debole dalla moglie e guardato con astio da un figlio
adolescente che si sente incompreso. E’
il dramma del figlio non accolto e valorizzato che si riproduce in due
generazioni.
Sarà proprio la rivelazione di un
Dio tenero e amoroso a muovere le persone in una riscoperta di nuova vicinanza.
E’ importante rilevare che l’unica icona religiosa che la Giafferi ci propone è
una statua lignea dell’Ecce Homo; stranamente seduta, con un volto più comprensivo,
che sofferente. C’è la voluta censura del dramma della crocefissione e
l’omissione di ogni riferimento teologico al riscatto della colpa. L’immagine del Cristo-Dio è quella di un
uomo, in posa empatica, che amorevolmente ascolta, davanti alla
quale si accovaccia Antoine per un colloquio interiore.
La percezione di sentirsi amato,
gratuitamente, senza richiesta, da una prossimità “svelata” e rivelata, permetterà
all’avvocato parigino di reinterpretare
le vicende personali con occhio diverso. Comprenderà la premura protettiva
del padre verso il fratello e l’inquietudine del figlio nascosta da lunghi
silenzi.
Rimangono elementi deboli della
pellicola la presentazione, non sufficientemente approfondita, del percorso
catecumenale di Antoine e il profilo della comunità che lo accoglie. Il
protagonista frequenta delle riunioni che sembrano più vicine ad un gruppo di
auto aiuto che ad una reale esperienza ecclesiale. Ma l’indugio descrittivo su
questi aspetti avrebbe forse tolto al film la giusta leggerezza che lo
allontana dal pericolo di essere un prodotto ad uso catechistico.
La locandina propone una scena
toccante e significativa dove padre e figlio si ritrovano attraverso un lungo
abbraccio e un reciproco perdono.
Enzo Riccò
Tratto dall’intervista
a mons. Busti, vescovo di Mantova e presidente ACEC sul film “L’amore inatteso”
La Cittadella, 29
marzo 2013
[La Cittadella] Il film per alcuni credenti e anche per
alcuni non credenti, è spiazzante perché rappresenta la conversione come un
avvenimento non travolgente e a tratti quasi banale.
[mons. Busti] La
conversione travolgente è tipica di altri periodi storici e forse deriva da
un’idea un po’ astratta che si ha della stessa conversione. Antoine riscopre la
fede in un cammino interiore che lo porta ad indagare dentro di sé quali siano
le motivazioni serie che lo spingono ad interrogarsi sulla domanda: “Chi vuole
essere amato?”. E’ un film sull’esperienza amorosa della fede. Arrivare alla
fede non è un cammino intellettualistico e nemmeno lasciato alla sola volontà
di credere; si basa invece sull’esperienza amorosa dell’incontro con Gesù
Cristo. Due sono i momenti centrali del film. Quando il protagonista entra in
una chiesetta e lì si ferma a contemplare una statua di Gesù, soffermandosi
soprattutto sul suo volto. Il resto invece si svolge tutto all’interno della
sua coscienza, vista come un “giardino segreto” dentro il quale l’uomo compie
le scelte radicali della sua vita.
Un giorno devi andare
di
Giorgio Diritti
Augusta, giovane di
Trento, dopo aver perso un figlio - forse nella gestazione - ed essere stata abbandonata
dal compagno, lascia l’Italia per seguire una suora nella sua attività
missionaria in Brasile. Vuole sfuggire ad un dolore che comunque la accompagna e
la perseguita appena la sua mente dà libero spazio al pensiero.
Di questo preambolo
non abbiamo immagini nel film di Giorgio Diritti, Un giorno devi andare. Solo il profilo di un bambino in grembo,
sovrapposto alle linee increspate di una luna che si specchia nelle piatte
acque del Rio delle Amazzoni.
Un film sulla
ricerca di un senso perduto perché frantumato da eventi sconvolgenti e
di-speranti. E in questo cieco percorso, Dio viene chiamato in causa come interlocutore
muto di una ragione che non si trova.
Per trattare il tema
complesso della domanda umana che interpella il cielo, il regista usa in
filigrana, con rimandi più o meno espliciti, la figura di Simone Weil, la
filosofa ebrea francese, ribelle e mistica, innamorata di Cristo senza essere
cristiana. Come Simone, infatti, Augusta troverà una momentanea pace non tanto
nell’aiuto ai poveri, ma nella condivisione totale della loro miseria. Tra le
lamiere della baraccopoli, nella fatica del lavoro fisico, si metterà al fianco
degli ultimi per essere a loro pari e non al loro servizio.
Chiave
interpretativa dell’opera di Diritti è un brano della Weil, tratto dal suo libro dal titolo
significativo: “Attesa di Dio”.
Mentre la barca scivola sull’acqua notturna, Augusta legge il testo senza
capirlo. “Non siamo in grado di muoverci
verticalmente. Non possiamo fare neppure un passo verso il cielo. Dio
attraversa l’universo e viene fino a noi…
Se restiamo sordi, egli torna e ritorna ancora, come un mendicante; ma un
giorno, come un mendicante non torna più”.
E’ nello stesso
tempo promessa e monito. La giovane, accolta
da una comunità povera e generosa, perderà facilmente la quiete conquistata
nella baraccopoli di Manaus. Un nuovo distacco. Una nuova perdita. Ancora
una bara bianca. La ferita, mai
veramente rimarginata, chiederà il riscatto di un senso inappagato.
Rabbiosa e
tormentata, Augusta cercherà la solitudine abbracciando la natura selvaggia
della foresta. Lei e una terra che manifesta tutta la sua potente bellezza, davanti
ad un’icona lignea di Cristo che scandalosamente tace, in attesa di risposte
che non arrivano. In una reinterpretazione del brano biblico del libro dei Re, dove
Elia attende nascosto la manifestazione del trascendente, Dio non si presenterà
nel vento impetuoso o nel rumore del tuono. Sarà come una brezza leggera e avrà il volto di un bambino che sorride. E
così, come il profeta, Augusta uscirà dal suo isolamento per accogliere questo
visitatore mendicante.
Formidabile questa
idea di Dio-bambino che viene a visitarla. Come balsamo sulla lacerazione di una
sofferenza insanabile, quale la perdita di un figlio, porta se stesso come
dono. Senza parole, con la leggerezza della vicinanza e del gioco.
I due scherzano e si
rincorrono. Appoggiano le mani e i piedi uno sull’altra, quasi ad identificare
un cammino comune, il sostegno in una mano tesa. Una lunga sequenza senza voci,
perché le parole poco servono a dare risposta ad un dolore.
Giocano a
nascondersi e a ritrovarsi. In fondo il gioco, come la preghiera per chi ha
fede, è una delle cose più “inutili” – nel senso contabile del termine - , ma
necessarie e vitali per la serenità dell’uomo.
Si conclude il film
nel silenzio, in una quiete ritrovata sulle rive sabbiose del grande Rio.
Le ultime parole
della pellicola escono dalla bocca di una giovane indios. Ha vissuto un
distacco lacerante, ma senza odio o rancore verso la vita, impone le mani, come
un sacerdote, per benedire una vita che
si sta spegnendo in un ospedale del trentino.
Enzo Riccò
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